PER ELIO PAGLIARANI, Diego Varini

  • Posted on: 1 November 2014
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«Nell’insipienza mia dico che mi bisogna parlare»: per fare un poeta, qualche volta, basta un grande incipit (qui viene dagli Epigrammi ferraresi del 1987, rimodulati sulle prediche di Savonarola). Superbamente aforistico, Pagliarani lo è stato sempre: capriolettante – ilare o aggrondato – come un ginnasta al volteggio. Un narratore che la sa molto lunga (come il suo verso oversize, contumace a ogni gabbia di contenzione): torrenziale, non mai lutulento. Un adepto della cerchia di Ezra Pound – l’irrequieto Charles Olson, amico e conversatore nei pomeriggi di St. Elizabeth – provò a fissar la cosa quasi in termini generali: un verso dovrebbe esser lungo quanto dura, in genere, una singola emissione di fiato (a bocce ferme, sovvengono ratifiche di metricologi in cattedra: ‘carattere distintivo del discorso poetico è sempre la segmentazione’). C’è molto Pound in Elio Pagliarani, che non è stato zitto né si è mai fatto gli affari propri (fin dai tempi di Inventario privato). Armato di penna e stetoscopio, ha scrutato per primo fra le maglie traslucide della città che sale: il sistema cambiava pelle ma chiedeva ancora obbedienza (l’aziendalismo è un fascismo). «Tener duro sul rapporto comunicativo», segnala ab initio la peculiarità della sua posizione in seno ai novissimi: salvare la sovrapponibilità del dettato a un’esperienza misurabile sulla cosalità del mondo. Certe questioni, c’è solo un mezzo per investigarle («Poeta è una parola che non uso / di solito, ma occorre questa volta perché / respinti tutti i tipi di preti a consolarci non è ai poeti che tocca dichiararsi / nella nostra morte, ora, della morte illuminarci?»). La morte… alla lettera, o per metafora («quanto di morte noi circonda e quanto / tocca mutarne in vita per esistere / è diamante sul vetro, svolgimento / concreto d’uomo in storia che resiste»). Questione preminente, che tutte le riassume: “perché i figli di Prometeo sono di nuovo infelici?”. Una domanda che può sembrare uno scherzo da prete: e virtù di ogni buon soldato (tale, anche la stenodattilo Carla di anni diciassette) resta tenere la bocca chiusa («ma senza fantasia / come può immaginare di commuoversi?»). Certi nevrotici ammutiscono, altri si fanno funestamente logorroici. Il cordoglio: è roba da preti (o da poeti). Sanguineti sceglieva di risolvere in grande polifonia un referto clinico: anche il brago è una couche per acquattarcisi comodi, scaldati al tepore di questo purgatorio de l’inferno. Glossolalìa può sempre risolversi in bellettrismo (eterogenesi dei fini?): forse il socialista libertario (il dottorino Elio, inurbato di Viserba) ha letto Gramsci meglio del chierico organico (o con più franco scapestrato disinteresse). «Proviamo ancora col rosso» (dirà più tardi Pagliarani): azzeriamo per un momento tutte le metafore. Una cosa è una cosa è una cosa. L’allegoria è teologica, ma la lettera è polisemica: il sermo humilis (Sanguineti-Auerbach) è una posizione stilistica, il sermo cotidianus (Pagliarani) una rivendicazione politica. La lingua dell’alienazione diventa gergo facilmente (oppure idioletto): non spacciamo una veglia funebre come fosse il primomaggio. Tra i feticci delle merci e della moneta, poco varrebbe atteggiarsi a profeti (nemmeno a cassandre): una palingenesi (se mai viene!) non sarà per domattina. Il fine è nulla ma il movimento è tutto, dunque in cinquant’anni potrà capitar spesso di rimettere mano all’organico strumentale. “Less is more”, ma poi le afasie vanno esplorate caso per caso, virando l’angoscia in latitudine paziente del discorso. Gli è che il caleidoscopio della realtà non sta vincolabile in nessuna formula. «Ci tocca vivere il no misurarlo coinvolgerlo in azione e tentazione»: per salmodiare la città che sale e cambia, non basta mai polmone o fiato (persino un doppio endecasillabo può sembrare un moncherino).

Crescono, coi fatturati aziendali, gli indici del prodotto interno lordo; il progresso è un razzo ma le parole mancano (tranne quelle – sùbito evanescenti – del mercato). Porgere la battuta a chi non la trova: sarebbe ancora la vecchia ricetta dell’ottocento (deamicisiana, populista, troppo facile). Meglio auscultare gli oscillogrammi del rumore. Indignatio facit versum, ma poi chi mettere veramente nel mirino? Il bersaglio si sposta frenetico – come valsente che sembra mercurio impazzito. Tutti i santi aiutano, ma specialmente quelli modernisti: ricordano a Pagliarani che il potere è un moloch terribilmente comico. Va su come se fosse elio, questo poeta che non si riempie mai la bocca d’aria. Noi lasciamolo divertire, anche quando il latrato del riso rimanda un’eco atrabiliare (come un ghigno di sfinge): gli urti sono dissonanze programmate, cortocircuiti per fare esplodere il silenzio in mille pezzi. Divertimento: è uscire improvvisamente dal microsolco. Un pazzo che gioca allo sfascio? No, un moralista che non si rifiuta al buffonesco: un momento fa scialo del proprio nervosismo o tedio, un altro veste panni di scimmia-ventriloquo, un attimo ancora e forse starà scolpendo qualche indovinello nella pietra («facciamo le corna ma il giusto / muore nel suo letto / anche Cristo l’ha detto»). Sono tanti giuochi di cacofonie preparate (vedi sub voce: ‘pianoforte preparato’); se non fossero enigmi talora anche sibillini o indecifrabili, sarebbe roba meschina da giullari (marionette del vaudeville padronale). Serve anzi fa benissimo, alla poesia, un acceleratore di gravità: separa il nucleo dall’elettrone, scioglie Perelà (o il deficiente Ubu) dalla gabbia. A una svolta della Ragazza Carla c’è un lungo calco impressionante che sembra tale e quale lo zio Ezra («nell’affare della soda, bell’e concluso in un momento delicato / […] / fu il rapporto dello scambio / dollaro sterlina – si compra a sterline si vende in dollari / a Londra c’è cancelliere un matto / che buttò a mare l’affare»); volti pagina e spunta Bertoldo Brecht shakerato in salsa surrealista, o in un ritratto di padrone delle ferriere à la Grosz («ci sono anche quelli che a sera / si tolgono un occhio mettendolo accanto / alla scrittura di Churchill, sul comodino, / intanto che fumano la sigaretta: / è un occhio fasullo, di vetro, ma è vera / l’orbita cava nel volto»). Lattes-Fortini – mentre fa mostra di un giudizio inopinatamente quasi benevolo – dice sùbito che nella Ragazza Carla manca in fondo «ogni progressione» («la sicurezza e la plausibilità narrativa: probabilmente perché lo schema narrativo è già slogato, già posto fuori del tempo cronologico, prima che gli inserti lirici provvedano alle transizioni»); non sembra disposto a scommettere che la staffetta-mescidanza delle voci, il frenetico ‘saltar di lato’ dello sguardo di Pagliarani (d’en haut e d’en bas alternativamente: fra una casa di ringhiera, il vuoto/pieno delle strade, o il vetro schermato di qualche indichiarabile sancta santorum) è un altro modo di corrispondere al romanzo con le armi precipue della lirica: un poco – modernisticamente – un altro rincorrere il solito fantasma assillante dello spazio/tempo, sulle piste di una forma che nasce esibitivamente scoturnata (quasi grumo di tranches de vie) e poi cresce organando in un solo composto il falso e il vero, rubati maliziosamente (come un rubato in musica), manovrati in un teatro che finge beffardo di non avere più quinte, mescolati di bile cachinnî e qualche lacrima (ma signore di tutti gli organi resta il cervello!). Sono le lacrymae rerum, ma poi non perdiamo tempo in farneticazioni da vedovelle del socialismo che non diventa evangelo in terra. Chi ha tempo (anche per odiare: ‘odi et amo’), non aspetti altro tempo. «È nostro questo cielo d’acciaio che non finge / Eden e non concede smarrimenti, / è nostro ed è morale il cielo / che non promette scampo dalla vita […]». Questo poeta che non crede a oltremondo (per questo, forse, anche scansa qualunque teodicea!), ha separato i campi del cielo e della terra (della ragione e della religione) con una durezza che pertiene solo (o soprattutto) alla fisiologia («lasciamo Dio che non ha bisogno di nulla / Predica lo Inferno: lui si leverà suso»: è ancora un Savonarola, mascherato o reduplicato iperrealisticamente, lugubre voce orripilata in deserto). La malinconia impolitica di questo strano engagé disingaggiato: resta agguantare il fotogramma (non dirò l’epifania) della vita sfuggente, che non si sa mai dove stia (e cosa sia) ma sempre sguscia dispettosa già altrove (così «si arriva a un altro sabato, ma casca / un approccio, o si perde per aria: domenica bis»). Pagliarani ha spettinato e maltrattato spesso, tutte le volte che occorreva, le chiavi del suo cordofono: per amore della forma, ed in odio ai poetini in cerca del lauro (castigati & diarroici, li avrebbe mandati forse tutti al gabbio). Sapeva che il destino della poesia non si gioca su porzioni metriche; nemmeno su equivoche – arroganti o mal fondate – rimuginazioni di tradizione e avanguardia (da compartirsi in misura variamente omeopatica). Il tempo è un moloch, oppure anche non esiste: ‘je est un autre’, però insieme noi qui stiamo, forzati ad esistere in corpore empirico (‘hic NON manebimus optime’). Non ci si traveste come si sceglierebbe un abito; la lingua sceglie noi, e forse ci risputa. «L’eternità non ha termine o fine alcuno. / E però [= per hoc] le poesie non hanno senso allegorico». Dietro il poeta politico – nei remotissimi esordî di Pagliarani – ritrovo a una svolta una specie di rabbiosa professione d’amour fou infervorato (quasi sorda minaccia sillabata o urlata): «Io non ti lascio alibi, ti amo / con la crudeltà necessaria per rischiare / la tua vita perché la mia è in gioco». Residuo secco surrealista? Mi dico (delirando) che questo è sempre Cavalcanti (va messo in conto – un’altra volta – alla lezione di Pound).

(d.v.)